Ricordati ciò che eravamo e ciò che siamo diventati; qui, nella quiete di un tempo immutabile che colleziona attimi da posare uno sull’altro.
La memoria umana può essere paragonata ad un archivio in cui tutte le nostre esperienze sono registrate e catalogate come ricordi, ovvero come qualcosa capace d’incidere nella nostra mente attraverso le percezioni, gli eventi e i volti della nostra vita, indirizzando le nostre azioni e le nostre volontà. Un archivio vivo e caotico, tenuto secondo criteri apparentemente folli: oggetti, volti, suoni, odori, sensazioni, immagini che convivono e si animano, assumendo improvvisamente forme nuove e vive, grazie all’inconscio. Un archivio attraverso cui possiamo ricostruire minuziosamente le sensazioni passate partendo da aspetti minimi e apparentemente irrilevanti del reale, capaci però d’innescare la catena delle associazioni di significati ed evocare situazioni e contesti passati. Il tempo perduto e ritrovato della memoria proustiana si manifesta come un’epifania, un’apparizione chiarificatrice che aiuta a disvelare a noi stessi ciò che siamo e che eravamo, quale era l’inizio delle speranze e quali le attese, alimentando con rimandi incessanti il continuum delle sensazioni e riflessioni che costituiscono il nostro flusso di coscienza. Un movimento fluido, inevitabile ed eternamente rinnovato attraverso cui quello che siamo ci scivola addosso.
Con Memento ci troviamo esattamente là, dove la realtà sfuma e tutto diventa memoria. E’ un sogno legato alla percezione di ciò che è stato, alla sua rievocazione. Una stanza piena di un’insperata pace e di un’ormai sconosciuta ingenuità, in cui il tempo meccanico, quello che si misura con gli orologi, è messo in crisi, non esiste più, e passato e presente convivono nel ricordo secondo una modalità diacronica che influisce sulla percezione. E’ il tempo della memoria umana, che raccoglie gli attimi di tutto quel passato indefinitamente trascorso che ignoravamo di portare in noi, e che invece esiste sempre e sempre ci accompagna, nonostante la colpevole indifferenza dei nostri pensieri.
Siamo immersi in un ambiente scolastico, circondati dai banchi e dalle sedie di una classe, apparentemente divenuti di pietra e disposti come in un aula scolastica. Su ognuno di essi è presente un libro aperto con delle matite e giocatoli vari, realizzati con una finitura che sembra di acciaio lucidato a specchio. Oggetti cristallizzati ed oggetti con superfici che riflettono la memoria e la moltiplicano, l’amplificano in un gioco di rimandi che muta ad ogni nostro passo, ad ogni diversa angolazione dello sguardo, incidendo nell’ambiente e catturandolo in modo diverso. Superfici diverse e giustapposte che dialogano coi sensi e con la nostra mente allo stesso tempo.
Si scopre qui un differente “oltre” rispetto alla cristallizzazione dei momenti e dell’essere a cui ci ha abituato Fresu, siamo partecipi in modo collettivo di una scena mentale piuttosto che reale, della sua rievocazione. E’ un paesaggio della memoria inafferrabile ed incompleto, di una memoria eidetica, che si attiva e crea immagini mentali definite e precise, solo grazie alla suggestione di un oggetto visto. E la realtà non si sa più a quale campo appartenga e se sia più reale il sogno (della memoria) o la realtà stessa.
Proust aveva parlato delle “totali resurrezioni del passato”, che non sono “semplicemente un’eco, un duplicato d’una sensazione passata”, “ma proprio quella sensazione stessa” (Il tempo ritrovato). Non è dunque semplicemente l’ ”idea” del passato, ma la stessa realtà del passato a conservarsi e ad esistere sempre. In Memento c’è un passaggio ulteriore, che possiamo esplicare attraverso la visione di Bergson quando afferma che la “completa sopravvivenza del passato” è una sopravvivenza che assicura “ad ogni stato psicologico passato un’esistenza reale, sebbene inconscia” (Materia e memoria), e prende in considerazione la possibilità di estendere “alla totalità degli stati del mondo materiale la completa sopravvivenza del passato psichico”. Ma per Bergson tale sopravvivenza non riguarda il contenuto concreto del passato, ma il “ricordo”, lo stato psicologico inteso come “rappresentazione di un oggetto assente”, che è assente perché si è annientato. Ciò che sopravvive completamente sono, dunque, soltanto gli stati psicologici, non gli “stati del mondo materiale”.
Fresu, andando oltre il pensiero di Proust e di Bergson, concepisce quei giorni trascorsi tra i banchi di scuola come il lontano ricordo di un passato che continua ad esistere anche quando il ricordo stesso sembra essersi perduto per sempre. Si tratta di un ricordo che vivrà non solo finché esisterà un io capace di custodirlo, e perciò capace di salvarlo dall’azione distruttrice del tempo, ma anche in una dimensione differente, che non è quella apparente: il passato che noi facciamo coincidere con la memoria rappresenta solo la parte a noi più visibile e le cose che non vediamo più non sono improvvisamente entrate nel nulla, ma solo e semplicemente scomparse dal nostro orizzonte degli eventi.
Allora quel che resta (citando il titolo di un’altra sua installazione), sembra suggerirci Fresu, è diventare memoria, sfiorando con delicatezza le cose che custodisce il tempo, lasciandosi carezzare i polpastrelli dalla loro “vernice”, senza mai allungare le braccia ed affannarsi nel prendere.
Il sempre è fatto di attimi che si stratificano, precipitati di tutto ciò che non sarà più e di tutto ciò che ancora deve essere.
Alessandra Frosini
Usiamo i cookies per migliorare l'esperienza d'uso del sito. Utilizzando questo sito, accetti la nostra politica sui cookie.Ho capitoLeggi di più